Olivier Clément Poeti e profeti


È compito del poeta – e attraverso questo indubbiamente egli profetizza – provocare un risveglio. I vecchi asceti dicevano che il più grande dei peccati è l’oblio: quando l’uomo diventa opaco, insensibile, talora indaffarato, talaltra miseramente sensuale; quando diventa incapace di fermarsi un istante nel silenzio, di meravigliarsi, di vacillare davanti all’abisso, per l’orrore o per il giubilo; quando diventa incapace di ribellarsi, di amare, di ammirare, di accogliere lo straordinario negli esseri e nelle cose; quando insomma diventa insensibile alle sollecitazioni segrete, anche se cosi frequenti, di Dio.

Allora interviene il poeta, e citerò per primo il grande, il tragico Pier Paolo Pasolini:

Per me c’è un vuoto nel cosmo

un vuoto nel cosmo

e da là tu canti.

Questo può urlare, un profeta che non ha

la forza di uccidere una mosca – la cui forza

è nella sua degradante diversità.

O ancora, in modo più pacificato (apparentemente), Stéphane Mallarmé:

Balbetto, ferito: la Poesia è l’espressione, attraverso il linguaggio umano ricondotto al suo ritmo essenziale, del senso misterioso dell’esistenza. Essa conferisce quindi autenticità al nostro soggiorno sulla terra e costituisce l’unico compito spirituale.

Perciò la poesia – più in generale l’arte – ci risveglia. Essa ci cala più in profondità nell’ esistenza. Fa di noi degli uomini e non delle macchine. Rende solari le nostre gioie e laceranti le nostre ferite. Ci apre all’ angoscia e alla meraviglia.

La poesia profetica di domani, nell’irradiante luce della croce pasquale, non sarà più quella volontà di auto-deificazione, di auto-trasfigurazione, di conquista prometeica del Wonderland (Paese delle meraviglie) che ha segnato l’«alchimia della parola» in occidente dal romanticismo tedesco fino al surrealismo: “Il vero poeta è onnisciente” diceva Novalis, “il filosofo poetico è nelle condizioni di un creatore assoluto… la poesia è il reale assoluto“. E Rimbaud: “Svelerò tutti i misteri: … morte, nascita, avvenire, passato, cosmogonie, nulla. Sono maestro in fantasmagorie“. E Nietzsche: “Da quando l’uomo si è perfettamente identificato con l’umanità, esso mette in movimento la natura intera… sono io stesso il fato e, dall’ eternità, sono io che determino l’esistenza“. Ma il mito del Wonderland si è dissolto nelle camere a gas di Bitler, nelle nevi della Siberia dove tanti cadaveri sono stati abbandonati, con una targhetta di legno alla caviglia. Un filosofo tedesco ha potuto dire che dopo Auschwitz non avrebbe potuto più esserci poesia. Eppure ora noi sappiamo che molti scampati alla shoah hanno resistito recitando a se stessi dei poemi, recitandoli ai loro amici: poemi del Wonderland, di tanto in tanto, ma spogliati del prometeismo, restituiti alla loro nostalgia fondamentale. Poemi anche di quei “traghettatori”, di quegli stalkers (nel senso che Tarkovskij ha dato a questa parola) tra i bagliori della parusia da una parte e la bellezza e l’orrore del mondo dall’ altra. Penso per esempio a Baudelaire, Eliot, Mandel’stam, Pasternak e la Achmatova. Echi della liturgia in Pasternak:

Ma ogni carne dopo mezzanotte

improvvisamente farà silenzio.

La primavera diffonderà la notizia

che dalla prima schiarita

la morte sarà alla mercé

del grande grido di Pasqua.

Umiltà dell’ultima rosa in Achmatova:

Signore, tu vedi quanto sono stanco

di risuscitare, di morire e di vivere.

Prendi tutto, ma di questa rosa rossa

possa sentire ancora la freschezza.

In seconda istanza, spero che in futuro si sviluppi una poesia liturgica illuminante che, pur attingendo alla grande tradizione d’oriente e d’occidente quale viene conservata nei monasteri benedettini o esicasti, ricorderà che Cristo continua a scendere agli inferi e che il nichilismo occidentale, planetario nel prossimo futuro (gli integrismi che pretendono di resistergli in realtà non ne sono che lo specchio), sì, che proprio il nichilismo è certamente oggi l’unico luogo possibile della risurrezione. Una poesia liturgica di questo tipo si staglierà come un’ alta montagna dove l’azzurro si condensa nella neve, che fa nascere i ruscelli, i torrenti, le praterie, i frutteti.

Perciò sta nascendo, al di là del Wonderland, al di là anche del sarcasmo e dell’ironia contemporanei, una poetica umile e austera delle cose, delle sostanze, che parte dalla concretezza del loro apparire per scoprirvi la trans-apparizione della Sapienza, quella Sapienza, dice la Bibbia, che continuamente gioca con Dio nella creazione. Ogni cosa contemplata con l’occhio del cuore, si apre allora su orizzonti infiniti. Semplicità così profonda di un Giorgio Mazzanti, ne Il canto della Madre:

Oh il vento

sulle foglie degli olivi,

oh la luce dei mattini

terreni –

lo splendore dei tramonti.

Poetica delle cose, avvenire dei volti, giacché il mondo, il mondo di Dio e dell’uomo, il mondo di Dio fatto uomo e dell’uomo chiamato a deificarsi, esiste solo nello spazio dell’incontro tra gli sguardi, della comunione tra i volti. L’arte astratta di Kandinskij ha permesso al suo amico Alexej von Jawlensky di accedere al mistero del volto, alle sue strutture segrete, al suo lik, dicono i russi, cioè alla sua potenziale icona (per distinguerlo da licina, che significa maschera):

Sentivo il bisogno di trovare una forma per il volto, perché avevo compreso che la grande pittura è possibile solo se si ha un sentimento religioso, e questo potevo esprimerlo solo attraverso il volto umano.

Tanti accenni in un Berdjaev, un Athenagoras, più recentemente in Emmanuel Lévinas, annunciano questa poetica dei volti e ogni tanto, anche alla televisione, in mezzo a tante facce, raffinate o bestiali, s’impone un volto di verità, di santità, come Veronica nella scena della passione di Hieronymus Bosch… Allora l’essere profondo dell’uomo si mette in movimento, ogni cosa, ogni persona sembra un miracolo.

Una poesia di questo tipo è profetica. Non che essa indovini o predica l’avvenire. Nella sua umiltà, nella sua spoliazione, nella sua gloria segreta, essa non decifra l’avvenire, lo rende possibile. Pro-feta significa “colui che parla a favore di”. Colui che parla a favore di ciò che più è segreto, più inosservato, più disprezzato, più debole – quel Dio che Elia intuisce non nella tempesta, né nel terremoto, ma in un mormorio “al confine con il silenzio” -.

Dobbiamo allora perseverare. Oggi tutto ciò che è essenziale sembra sotterraneo, come la grotta della natività, come la grotta del cuore. Bisogna che lo sia. Bisogna che il Dio della libertà e della gioia s’incontri con l’uomo “postmoderno”, che è adulto e nel contempo non accetta di esserlo, che è potente e insieme disperato, nel punto più segreto della sua angoscia e del suo desiderio.

È il grido profetico di Dmitrij Karamazov condannato al bagno penale, a lavorare nei sotterranei, anche quelli dell’ anima, condannato per un crimine che ha consumato senza commetterlo, come tutti noi:

Se si scaccia Dio dalla terra, lo incontreremo sotto la terra… Allora noi, gli uomini sotterranei, intoneremo nelle viscere della terra un inno tragico al Dio della gioia. Viva Dio e la sua gioia! Io lo amo!

da  Il potere crocifisso Vivere la fede in un mondo pluralista